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e il dolore che provano nel perdere è troppo breve, e viene ben presto dimenticato; del resto, può
essere mitigato da innumerevoli scuse, come la distrazione, la stanchezza, l'eccessiva sicurezza nei
confronti di un giocatore ritenuto più debole... E poi ci sono i perdenti nati, quelli che dentro di sé
covano sempre il disastro .
Avrei voluto dirgli che il mio maggior difetto era l'impazienza, ma Tabori non era dello
stesso parere.
Il tuo difetto è la disattenzione! tuonò, pronunciando l'ultima parola come una condanna.
E non solo tuo: è il maggior difetto di ogni giocatore. E quando parlo di attenzione, intendo
qualcosa di molto più grande di quanto comunemente si pensi. I sacerdoti maya si cimentavano,
nelle loro feste sacre, in un gioco simile alla moderna pelota, ma nell'afferrare e nel lanciare la palla
erano consapevoli che sarebbe bastato un solo sbaglio da parte di uno di loro a far precipitare l'astro
del sole. Questa è l'Attenzione di cui parlo! Come se la posta in gioco fosse la tua stessa vita, o
meglio: non solo la tua perché tu potresti anche essere un potenziale suicida -, bensì quella delle
persone che ti sono più care. Tutto il resto: la strategia, la tattica, lo studio delle aperture e dei finali,
tutto ciò è un corollario che diventa superfluo se viene a mancare questa forma di attenzione. E sto
parlando, naturalmente, di un gioco di livello superiore, di un gioco da grande maestro - non mi
riferisco certo alle squallide esibizioni cui spesso mi tocca assistere al nostro circolo... .
Era da un pezzo che Tabori mi stava seduto di fronte, ma fu come se lo vedessi per la prima
volta in quel momento, come se le parole che aveva appena pronunciato ne avessero mutato la
fisionomia.
Indossava una vestaglia di seta con alamari di filo dorato e calzava delle babbucce dalla
punta lievemente rialzata, che gli conferivano un aspetto da levantino. Le sue guance risaltavano
scure, come cosparse di polvere di carbone, e contrastavano con il pallore della fronte. Sebbene si
fosse rasato di fresco, l'attaccatura della barba era fortemente marcata fin sopra gli zigomi; se solo
l'avesse lasciata crescere, gli avrebbe bardato il volto, ricciuta e folta come quella di Gilgames; e a
me, che ero un adolescente biondiccio e quasi del tutto imberbe, questo particolare toglieva ogni
speranza di potergli un giorno assomigliare.
Mentre parlava, aveva già cominciato a rimettere le pedine nell'ordine di partenza, e ciò mi
fece pensare che avesse intenzione di darmi la prima lezione di scacchi. Così fu, infatti, ma non
proprio nel modo in cui credevo io. Collocato che ebbe l'ultimo pezzo sulla scacchiera, egli tolse dal
gioco la propria regina e disse:
Hai i bianchi. A te la prima mossa .
Mi stava concedendo un vantaggio incredibile: giocare senza la regina è un po' come fare a
pugni con una mano legata dietro la schiena. La cosa, di per sé, mi parve già abbastanza
mortificante, ma a quanto pare Tabori non riteneva ancora sufficiente il proprio handicap: infatti,
con mio grande stupore, girò la sedia su cui era seduto, dandomi le spalle, e mi annunciò che
avrebbe fatto a meno di guardare la scacchiera. Sarei stato io a comunicargli le coordinate di ogni
pezzo che avrei mosso, e lui avrebbe fatto altrettanto; e sarei stato ancora io a spostare
materialmente sulla scacchiera le figure di entrambi. Se al principio la proposta mi aveva umiliato,
ora, paradossalmente, mi divertiva: non solo un braccio dietro la schiena, dunque, ma addirittura
una benda sugli occhi. La sua sfida cominciava ad apparirmi come qualcosa di prodigioso.
Iniziai a giocare. Pensavo che avrei potuto colpirlo quando e dove volevo. Per un momento
fui sfiorato persino dall'idea di poter barare. Giocavamo senza limiti di tempo. Tabori era davanti a
me, voltato di spalle. Di tanto in tanto si accendeva una sigaretta. Probabilmente, sulla parete bianca
che aveva di fronte, vedeva più cose di quante non ne vedessi io sulla scacchiera. La partita terminò
solo nel tardo pomeriggio, quando Tabori mi annunciò di aver dato il via a una continuazione
forzata che portava alla vittoria in sette mosse. E poiché lui seguitava a darmi le spalle, la
dimostrazione di quell'asserto, con tutti i suoi corollari, fui io, per ironia della sorte, a doverla
eseguire fino allo scacco matto.
Quella fu dunque la prima severa lezione impartitami dal mio maestro, una lezione che
demolì il mio amor proprio. Se potevo essere battuto in quel modo, quante migliaia di anni luce mi
separavano dall'ideale che intendevo raggiungere?
Uscii da quella casa come ci si risveglia da un incubo, che però continuerà a tormentarci
anche da svegli. Non ricordo più nulla né del nostro commiato né del percorso che feci per ritornare
alla mia stanzetta di studente. Provai invidia per il mio compagno che non sapeva distinguere un
cavallo da un alfiere, e ripresi in mano i miei libri di storia dell'arte, trovando un amaro conforto al
pensiero che in fin dei conti gli scacchi non erano tutto nella vita.
Soffrii per molti giorni della ferita inflitta al mio orgoglio. Nei confronti degli scacchi non
provavo altro che una nausea infinita. Inutile dire che mi tenni alla larga dal Rote Engel.
Certo, se avessi seguito gli impulsi di quel momento, la mia sarebbe stata la carriera più
breve della storia degli scacchi. Ma lo sapete quanto me: non siamo noi a poter decidere come e
quando abbandonare gli scacchi - poiché sono essi a dominarci. Vero è, tuttavia, che non tornai
tanto presto al circolo, e che gli scacchi per un po' non volli neppure vederli.
Finché un giorno non ricominciai ad armeggiare sulla scacchiera, cercando di ricostruire
mossa dopo mossa quella partita che mi aveva riservato una sconfitta tanto umiliante. Dovetti
concludere infine che, se le cose erano andate così come me le ricordavo, dovevo essere stato
proprio un idiota. Quello non era il mio gioco! Una cosa però era certa: dovevo riconsiderare tutto
con più rigore. Mi imposi un periodo di ritiro, e ripresi in mano i non pochi libri sull'argomento
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